In questi giorni molti di noi hanno sentito la necessità di rendersi utili rispetto agli eventi che stiamo vivendo.
La possibilità unica di rimanere in casa, Di poter dedicare tempo ai nostri cari, a quello spazio tanto bramato nei momenti di intenso lavoro, in molti di noi, ha evidenziato l’insorgenza di altri necessità e paure. Paura per la propria vita, quella dei nostri cari, della perdita de lavoro, delle previsioni per il futuro incerto. Oltre a non poter e volere accettare la diffusa sensazione di pericolo e la perdita delle libertà individuali.
La paura del contagio, del virus, è una paura insondabile e profonda, legata a sentimenti di vulnerabilità e fragilità che non tutti sanno come gestire. Per combattere il panico ingiustificato e collettivo, però, occorre buon senso, una corretta informazione (senza, per esempio, abboccare a ogni fake news diffusa sui social) e strategie mirate di evitamento dei flussi di notizie ansiogene che in questi giorni riceviamo con un ritmo incessante.
L’inattività forzata a casa porta a dover fare i conti con sentimenti ed emozioni che non abbiamo imparato a gestire, o che tenevamo chiuse nel nostro inconscio: in un momento così fuori dall’ordinario, abbandonare la routine rassicurante, le passeggiate, i contatti con amici e la cerchia sociale, a volte addirittura con il partner e i colleghi di lavoro, può diventare fonte di sconvolgimento emotivo e turbamenti molto forti.
La casa può sembrarci una prigione, le ansie acuirsi e il panico fare capolino. In questi casi, l’unica soluzione è affidarsi ad un aiuto.
In questi anni ho sperimentato molte sensazioni simili a queste nei gruppi con patologie mediche e relativi mutamenti corporei dovuti all’insorgere della malattia.
Come counselor ho sentito l’impegno sociale di prestare il mio supporto personale per sostenere ed empatizzare con tanta sofferenza diffusa. Per questo ho deciso di collegarmi ad un gruppo di colleghi per supportare via skype/whatsapp chi ne aveva bisogno.
E’ un mezzo che ho già utilizzato per le consulenze sia individuali che di gruppo. In questi giorni è diventato l’unico mezzo utile per sostenere persone che non avevano nemmeno mai pensato alla necessità di poter parlare dei loro problemi con qualcuno.
Secondo l’OMS “ il counseling è un processo che, attraverso il dialogo e l’interazione, aiuta le persone a risolvere e gestire problemi e a prendere decisioni; esso coinvolge un “cliente” e un “counselor”un soggetto che sente il bisogno di essere aiutato, il secondo è una persona esperta, imparziale, non legata al cliente, addestrata all’ascolto, al supporto e alla guida.
Per me il counseling, soprattutto il Crisis Counseling, legato alle emergenze non è un intervento psicoterapico e presenta molteplici differenze:
- E’ proattivo perchè spinge sia il counselor che il cliente ad un’interazione attiva dell’evento critico. Ci si informa sulle esperienze vissute, sullo stress esperito.
- Si utilizzano tecniche importanti per entrare in empatia con il cliente come il coping.
- Si trovano le risorse necessarie per poter trovare il modo di far “funzionare” al meglio la gestione familiare.
- Il counselor in tempo di crisi può essere anche il ponte per fornire informazioni, contatti sui servizi presenti nella comunità allargata che possano aiutare.
- Il counselor si focalizza principalmente sulle emozioni e le difficoltà del momento e tende a mantenere sullo sfondo le vicende personali non connesse alla situazione di crisi. Proprio perché lavora sul bisogno presente.
- Tendendo a facilitare lo sviluppo di una piena consapevolezza della problematica innescata dal periodo di crisi. Una volta identificata risulterà meno gravoso l’affrontare l’evento negativo.
Come counselor, in questo momento di crisi sociale, ho il compito di prevenire e promuovere il benessere e non sarò mai interessata ai disturbi pscicopatologici.
In questi giorni, oltre all’ascolto empatico, utilizzo spesso meditazioni e tecniche di rilassamento per abbassare l’ansia nelle persone.
In Israele, ad esempio, una ricerca effettuata su un programma di counseling in persone che vivono in scenari ad alto rischio di attentati terroristici ha dimostrato che interventi di normalizzazione, insegnamento di tecniche di rilassamento e ristrutturazione cognitiva, sono più efficaci nel ridurre i livelli di ansia nel lungo periodo rispetto al counseling tradizionale non direttivo.
Mi è capitato spesso di ascoltare o verificare atteggiamenti di vergogna, emozioni profonde di abbandono, di rabbia verso le istituzioni, grazie alla comprensione del vissuto delle persone si riesce pian piano a trovare una comunicazione efficace che porta a sciogliere i nodi e soprattutto a non avere più il timore di essere giudicati. Facendo sentire le persone a loro agio vi è una maggiore apertura e si riesce ad esplorare maggiormente i sentimenti e le emozioni.
Gli ingredienti che fanno da sfondo alla relazione di aiuto sono il senso di ottimismo o speranza, una dose di calore, un atteggiamento cooperativo ed l’accettazione incondizionata.
A differenza della situazione in cui opero normalmente, oggi assisto situazioni di crisi in cui è necessario sospendere alcuni degli assunti tradizionali. Il tempo limitato a disposizione, l’intensità delle reazioni psicologiche, il numero di persone coinvolte e l’imprevedibilità delle caratteristiche del contesto in cui opero impongono dei cambiamenti rispetto alla relazione d’aiuto tradizionale. In questo tipo di intervento, inoltre, il silenzio e l’ascolto attivo assumono un valore ancora più importante rispetto alle tecniche di riformulazione.
Il counseling nella crisi si fonda sulla mobilitazione delle risorse personali e della rete sociale delle persone aiutate. Gli ambiti di applicazione di questo tipo di intervento sono molteplici se si pensa al numero esteso di persone coinvolte nell’evento critico come medici, operatori sanitari, malati e famigliari legati direttamente con il Covid-19 ma vi sono anche le violenze, gli abusi, le emergenze o diagnosi di malattia grave.
Mi è capitato di essere di sostegno agli operatori del soccorso, ai professionisti e volontari i quali, condividendo con le vittime primarie situazioni altamente stressanti ed emotivamente molto “forti”, subiscono l’effetto della cosiddetta “traumatizzazione vicaria”, vale a dire a probabilità che un soccorritore durante un’operazione viva lui stesso un trauma.
L’immediatezza dell’intervento su un evento come questo significa sostenere i clienti condividendo le emozioni, accogliendo il dolore, favorendo la condivisione delle emozioni e la loro normalizzazione. Ciò consente di attivare le risorse resilienti degli individui.
Significa limitare l’insorgenza degli effetti duraturi e gravemente lesivi per il benessere psico-fisico dell’individuo.
Le parole chiave di questo primo intervento, che non è prevalentemente, non psicoterapeutico, sono: empatia, capacità di ascolto, accoglienza, rispetto.
Solo successivamente, si tenterà di riattivare i clienti dal passare dalla “fase di vittima della situazione” ( i sopravvissuti) ad una fase di riprogettazione del futuro, partendo dalla normalizzazione che l’evento ha interrotto.
È normale che ogni tanto che la ferita sanguini, in questo non c’è nulla di patologico. E’ l’effetto del trauma che tutti stiamo vivendo. Non vi è nulla di patologico nel chiedere aiuto.
Credo profondamente nel mio ruolo sociale, indipendentemente dalla situazione attuale, e credo nell’importanza della relazione d’aiuto.